Asteya, il non rubare

Asteya, il non rubare

Terzo dei principi etici del Raja Yoga e terzo degli Yama è Asteya. Questo termine dalle mille sfumature significa “non rubare” e potrebbe suonare come un’imposizione, una vocina antica e severa a cui verrebbe da rispondere “eh su, non esageriamo”. Spesso tralasciamo questo valore così elementare o crediamo di conoscerlo benissimo proprio perché lo sentiamo ripetere da tutta la vita, ma la filosofia yoga ci suggerisce di lasciare andare le nostre resistenze e convinzioni ed esplorarlo con curiosità, con occhi nuovi. E così, piano piano, possiamo percepirne i dettagli, ascoltare quale saggezza è racchiusa in una parola.

Non rubare è qualcosa che ci insegnava la mamma quando eravamo bambini e che ci ripetevano a scuola. Non rubare la palla al tuo amico, non mangiare la mela dall’albero del vicino. Tuttavia, possiamo andare ancora più in profondità nell’interpretazione. Non prendere e non togliere, a me stesso e agli altri, vuol dire anche non dare eccessivamente, non lasciarsi prendere più di quanto sia necessario o sostenibile. Quante volte siamo così presi dalla smania di aiutare, che sottovalutiamo l’importanza del nostro benessere individuale?

E vale per tutto, sia per le cose materiali, sia (e soprattutto) per ciò che è intangibile come tempo, energia, attenzione, dignità, carattere, presenza, verità, libertà. Vale anche per l’immagine che ci facciamo di noi stessi. Se pretendiamo di essere diversi da ciò che siamo, se vogliamo adattarci a un’ambizione che non è nostra, allora stiamo rubando. E chi ruba? Il nostro ego più profondo, che vuole prendere tutto per sé, controllare, essere bravo.

A volte togliamo anche con il pensiero, con il desiderio, con i sogni che ci portano lontani dal qui e ora, lontani da ciò che siamo e ciò che abbiamo. Il desiderio ci impedisce di vedere ciò che di bello ci circonda e di provarne gratitudine. Quanto sarebbe più semplice (ma non facile) e più appagante apprezzare il presente nella sua interezza…

E poi, se vogliamo spingerci ancora più in là nella nostra riflessione, possiamo persino chiederci, che cosa possediamo in realtà? Di tutto ciò che vediamo, nulla è davvero nostro. Siamo talmente interconnessi gli uni agli altri e ci sono talmente tante variabili da cui dipende ciò che è, che sentirci proprietari di qualunque cosa è davvero un’illusione.

In tempi in cui le nostre libertà vengono limitate, percepire le infinite interconnessioni tra gli individui è una grande risorsa. Stare insieme e sentirsi uniti anche se viviamo e ragioniamo diversamente ci avvicina, ci fa capire come le decisioni che prendiamo non sono davvero solo nostre e come tutto abbia conseguenze, effetti, ripercussioni. Così come un sorriso, un pensiero, una parola, un gesto, un’azione.

Portando con noi le riflessioni dei mesi scorsi sugli altri Yama, Ahimsa e Satya, e quindi con onestà e non violenza, siamo invitati a lasciare andare ogni giudizio, ogni reazione aggressiva, ogni chiusura e lamento, ogni voglia di convincere, cambiare, e a stare nell’osservazione. Testimoni di ciò che stiamo vivendo, sapendo che ognuno ha le sue ragioni per le scelte che fa e che tutti, alla fine, abbiamo un profondo bisogno di pace. Siamo chiamati alla staticità, alla pausa, a trovare la nostra personale calma interiore da cui guardare il mondo con lucidità.

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